Superlega | 29 marzo 2023, 11:42

Caso Polo: Silenzio, parla Alberto

Alessandro Trebbi

Il centrale ex Piacenza racconta in esclusiva a Volleyball.it, unica testata ad aver seguito il caso, quanto raccontato ai giudici del Tribunale Antidoping

Caso Polo: Silenzio, parla Alberto

MODENA - Con la vicenda giudiziaria giunta alla fine del suo percorso, Alberto Polo ha deciso di parlare. Per togliersi un peso, per sottoporci la versione che ha raccontato ai giudici del Tribunale Antidoping, per uscire allo scoperto con la sua verità, quella che è mancata per tutti i due anni di questo caso nel quale per prima la giustizia sportiva italiana ha mancato di trasparenza. Ecco allora il racconto dell'ex centrale di Piacenza, un racconto sentito che Alberto ha voluto lasciare come testimonianza: anche e soprattutto perché altri atleti possano trarre spunto e insegnamento da vicissitudini che lo hanno segnato profondamente e che ne hanno compromesso la parte forse migliore della carriera. 

ASSUNZIONE DI COLPA. “Nella difesa, davanti al giudice – esordisce Alberto Poloho subito chiarito che ho di certo assunto io le sostanze che mi sono state trovate nelle urine al controllo. Non ho però cercato nulla di mia volontà, quei prodotti mi sono stati consigliati prima e dati poi e non ne conoscevo la natura dopante, pensando fossero integratori omeopatici come quelli che avevo già a disposizione e che stavo assumendo”.

IL COVID E LE INTEGRAZIONI ALLE CURE. “Stavo male dopo il Covid – continua Polo (siamo tra fine gennaio e inizio febbraio 2021, ndr)a un certo punto il preparatore atletico Juan Carlos De Lellis mi ha chiesto di fare integrazioni con prodotti che dovevano essere omeopatici. Non ho detto certamente di no. Mi è stato detto che li avrebbe preparati un dottore di Milano”
Un dottore di Milano di cui è ormai noto il nome, A.P., ma che non è mai comparso nelle notizie su questa vicenda. Come mai? Un altro dei non detti incredibili legati a questo caso. “Mi hanno anche  detto che per prendere questi prodotti – prosegue il centrale – avrei dovuto fare un esame del sangue e una visita, proprio con questo medico milanese: visita prescritta ma che io non ho mai fatto. Anzi, il dottore milanese (A.P.) non l'ho mai visto di persona né sentito. Ho solo fatto gli esami del sangue tramite la società, una prassi consueta, certamente non anomala. Gli esami del sangue me li ha prescritti il dott. De Joannon. Non avevo visto i risultati però, li ho visti solo il 6 aprile, dopo la notifica della positività quando li ho chiesti al dottor De Joannon in quanto ero preoccupato per la  mia salute, tanto che sono andato personalmente, pochi giorni dopo, a fare altri esami del sangue per mio conto”. Continua Polo: “Nella mia testa al tempo dei fatti ero tranquillo perché il tutto si stava svolgendo su indicazioni del preparatore della società e con il supporto di medici. Mai avrei pensato di incorrere nella situazione in cui mi sono poi trovato”.

I 500 EURO. Qui forse la parte in cui Polo ha sbagliato di più, fidandosi, stando alla sua versione, pur di fronte a una richiesta del tutto inusuale e, col senno di poi, evidentemente non tracciabile. “La gestione della visita con il medico milanese e l’ordinazione dei prodotti prescritti dallo stesso medico era stata curata direttamente da De Lellis, il quale mi ha quindi informato dei costi per la visita (euro 250) e per i prodotti (euro 250). In buona fede ho quindi dato i soldi a De Lellis, il quale mi ha consegnato i due flaconi incriminati. Li ho messi su un tavolo insieme ad altri prodotti omeopatici che già stavo prendendo. Mai avrei pensato che i due flaconi fossero di natura diversa da quelli omeopatici già in mio possesso”
Aggiunge poi ancora Polo: “Il medico milanese era una conoscenza di De Lellis, non l’ho mai visto e i flaconi sono stati spediti a nome di De Lellis che me li ha consegnati. Ecco perché ho consegnato i soldi a De Lellis, non per altro”.

IL DOPING. “I prodotti li ho assunti sulla fiducia, pensando fossero come gli altri. Sul flacone c'era una dicitura stampata ma non si capiva bene che fosse doping, o almeno non in maniera chiara come nei medicinali da banco potenzialmente dopanti. Non c’era il classico bollino rosso che deve esserci per legge e ti fa capire immediatamente che si tratta di prodotto dopante. La parola “doping” era coperta da un marchio (Lifecare). Anche questo aspetto è stato segnalato al TAS”. Aggiunge infine Polo, facendo chiarezza anche su quel 13 marzo dopo il match tra Piacenza e Trento: “Prima del controllo antidoping ho pure chiesto al dott. De Joannon, alla presenza del personale incaricato di fare il controllo, se avessi dovuto dichiarare l'assunzione dei prodotti consegnatimi da Carlos. Il dottore mi ha detto di no, in quanto erano prodotti omeopatici. Ero in totale buona fede”.

Eccola, finalmente, la ricostruzione dei fatti nella versione di Alberto Polo. Cui noi diamo lo spazio e il credito che merita avendone trattato il caso (soli!, ndr) fin dall'inizio e avendo cercato di far luce su quanto accaduto fin dall'inizio. Offrendo lo stesso spazio, ovviamente, anche a chi volesse controbattere e fornirci la sua versione. Quanto riportato da Polo è quanto messo agli atti dai giudici antidoping che mai, nelle motivazioni delle sentenze, gli hanno contestato di aver dichiarato il falso o hanno messo in dubbio la sua ricostruzione
Per dovere di cronaca e giustizia, va anche riportato quanto emerso dalle altre due sentenze sul caso, quelle che riguardano De Joannon e De Lellis, entrambi condannati in primo grado e poi completamente assolti in appello. Qui però mancano sentenze e motivazioni, nemmeno le notifiche delle condanne e delle assoluzioni sono state rese pubbliche dalla Nado. Torniamo al motivo di fondo: è questo l'antidoping che vogliamo, che funziona? 

Da ultimo, due osservazioni personali. 
- Quello effettuato il 13 marzo 2021 è stato uno dei rari controlli antidoping che vengono svolti nel mondo del volley. Difficilmente si superano i due controlli per club a stagione. Sicuri che sia un sistema che può prevenire e fungere da deterrente per le pratiche dopanti? 
- L'altra osservazione è sulle due sentenze. In primo grado la Procura aveva chiesto sei anni per Polo, ipotizzando un programma di doping studiato e di cui tutti, giocatore compreso, fossero consapevoli. Questa tesi non è mai stata accolta dai giudici, scagionando così tanto la società quanto il giocatore stesso. 

Trascriviamo infine quanto scritto nelle due sentenze. In primo grado si puniva “l'atteggiamento psicologico (di Polo, ndr) massimamente negligente e imprudente”, senza intenzionalità o  consapevole assunzione del rischio, mentre in Appello è stato introdotto il tema dell'intenzionalità. Non dolo, si badi bene, ma accettazione del rischio. “Le circostanze sommariamente indicate – si legge nella seconda sentenza, quella d'appello – rendono inaccettabile la condotta dell'atleta e non possono che qualificarla quantomeno in termini di chiara accettazione del rischio”. Un cambio drastico, costato due anni in più a Polo, senza nessun elemento nuovo emerso tra prima e seconda sentenza che confermano entrambe che Polo non aveva la volontà di doparsi, il che rende giustizia all’atleta almeno sotto questo profilo.

Questo è quanto. Una storia triste, con un unico colpevole che ha pagato un prezzo carissimo, troppo caro, alla sua negligenza. Una storia che deve insegnare agli altri atleti ma che soprattutto dovrebbe spingere il sistema antidoping italiano, sia quello dei controlli che quello giudiziario, a riformarsi per essere più efficiente. E, complessivamente, più giusto. 

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